La stazione ferroviaria. Zaino in spalla, pronti a partire, destinazione sconosciuta. L’importante non è la meta, ma il viaggio: contano i posti che si visitano, le persone che si vedono, quelle con cui si vive e si condividono esperienze, quelle con cui di volta in volta si sceglie di instaurare un rapporto di conoscenza. Cos’è ciò che veramente importa? Ve lo dico io. Ciò che importa è che It’s Important, ultimo album in studio del bassista virtuoso Dino Fiorenza, sia comunicativo fin dalla cover: perchè i dischi strumentali rischiano sempre di non essere capiti, data l’assenza delle parole cantate e genericamente anche di melodie di diretta assimilazione. Perchè la chiarezza comunicativa è sintomo di trasparenza artistica: questo disco è un viaggio attraverso tanti stili, tanti approcci, tanta esperienza, tanti obiettivi, tante tecniche, tante caratteristiche. Riassumerlo in poche parole è impossibile e, comunque, non renderebbe giustizia al lavoro svolto dai soggetti coinvolti né tantomeno a chi legge, che certamente vorrà avere il piacere di approfondire la conoscenza del platter personalmente, con le proprie orecchie.
Stabiliamo dunque un punto fermo: il primissimo obiettivo, quello di avere un disco tutto sommato semplice da ascoltare, è pienamente raggiunto. Fiorenza ed i tanti musicisti con cui collabora non si riparano dietro l’ermetica impenetrabilità di una musica di difficilissima assimilazione; It’s Important è tante cose -divertente, diverso, impegnato, leggero, pesante, raffinato- ma non è mai difficile, quindi se anche non siete soliti ascoltare musica strumentale non voltate pagina, perchè questo disco potrebbe fare per voi, anche se voi non lo sapete. Stante una base di line-up (e che line-up!) che si ripete in ogni traccia, ogni pezzo è caratterizzato dalla presenza di almeno un musicista ospite (in prevalenza chitarristi, ed in tal senso val la pena far notare i nomi di Jennifer Batten e Marco Sfogli): la primissima impressione è quella di trovarsi di fronte, di volta in volta, ad una jam diversa; ogni canzone si distingue per la grande dose di libertà che è stata data ai musicisti in fase solista e per le doti che comunque tutti i presenti dimostrano di avere, considerata anche l’eterogeneità della proposta. Eterogeneità che è probabilmente dettata dal fatto che ciascuno porta con sè il proprio bagaglio di esperienza, ciascuno dice la sua: il risultato è un disco molto variegato, in cui la qualità delle composizioni non scende mai sotto “l’ottimo” e che pertanto è atto a girare nel lettore di chi lo possiede per molte, molte volte, verosimilmente stagliandosi sopra la “durata media” dei dischi solisti.
Giunti a questo punto qualcuno si starà chiedendo cosa aspettarsi, concretamente, dall’ascolto di It’s Important… ebbene, immaginate un album in cui la base ritmica poggia quasi esclusivamente su complicatissimi fraseggi di basso, sommersi dagli assoli di chitarra (Tap That Bass, Devil Go), supportati in ogni sedicesimo da ritmi di batteria in cui neanche un colpo è lasciato al caso (Liquid, ma anche la più progressive Say Go) ed in cui si lascia anche spazio per l’interpretazione pura, quella che spessissimo si ritrova nei brani acustici, quella in cui i musicisti possono esprimersi tramite un’accurata selezione di note, quella in cui ogni vibrato ti emoziona e si distingue dal resto delle note contemporaneamente in esecuzione. Pensate ad un disco musicalmente e tecnicamente privo di difetti, un album che non ha assolutamente nessun punto debole se non quello di avere un termine. Sì, perchè l’ascolto vero del disco (quello fatto in totale assenza di altre attività, quindi non mentre si è alla guida della propria autovettura, tanto per intendersi) produce, finito l’album, l’effetto di nostalgia che è tipico solo ed esclusivamente dei grandi platter.
Non mi stupirei se qualcuno di voi avesse già ascoltato It’s Important, dato che il disco è uscito nel 2010. Mi stupirei piuttosto se i fan di musicisti come Greg Howe, Richie Kotzen ma volendo anche Stevie Wonder (di cui la mia mente riesce a scorgere l’influenza nello spettacolare brano intitolato Mr. Vester) non fossero quantomeno interessati all’ascolto del platter in discussione. Scelgo di catalogare il disco come “shred” in virtù dell’approccio esecutivo estremamente virtuoso che è linea comune agli strumentisti coinvolti ed a più o meno tutti i pezzi, ma di fatto la musica si rivolge a coloro che trovano nel funky, nella fusion, nel jazz e pure nel progressive una valvola di sfogo alla propria creatività. Non rientrate in queste categorie ed avete timore di trovarvi di fronte a qualcosa di troppo difficile per la vostra esperienza di ascoltatori? Io vi suggerirei comunque di provarci. It’s important!
Fonte: Metallized.it